giovedì 13 maggio 2021

Sospesi tra acqua e cielo - frammenti da un diario di prigionia del 1700



Agisce nel profondo dell’uomo un magnete di essenziale spietatezza, sussiste nell’enigma sacro della sua identità una remotissima attitudine alla crudele sottomissione e di come, nelle forme più disumane di assoggettamento, egli possa sprigionare la dote di una caparbia resistenza, di una forza tenace altrimenti impossibile ad essere palesata.

Del resto, la Rivelazione professata nella confessione di fede del credo menzognero, scaturisce da un esemplare patimento intimo e supplizio fisico indicibilmente intensificati, che annientarono il Figlio dell’uomo affinché potesse prodigiosamente risorgere dalla propria morte sacrificale, a grandioso motivo di redenzione delle colpe dell’uomo.

Solo da questa impronta di dolore ancestrale infinito, inseparabilmente congiunto ai preminenti misteri dello Spirito, la massima potenza rivelativa perviene alla coscienza mediante il suo essere travolta dal male (così come ogni mito antico tramanda). 

Sembrerebbe che solo dopo aver raggiunto il fondo dell’abisso doloroso possa essere conseguito il sommo grado della potenza ideativa, la cui diffusione nella realtà universale rimarrebbe altrimenti ignota.

Unicamente da questa considerazione potremmo ottenere intuizione certa del livello di straordinaria profondità in cui si compie l’inaudita reclusione dell’uomo; quale sia la condizione del degrado esistenziale raggiunto, e non già ora ma fin da prima che accadesse il Diluvio Universale, la cui Arca di Salvezza giunta al termine della penosa navigazione, approdando, è poi divenuta Tempio sepolcrale della memoria perduta.

L’animale uomo, quando posto sotto una feroce costrizione, è capace di testimoniare eccezionali doti di resistenza altrimenti impossibili a essere verificate. Basti solo questo a persuaderci della sostanziale falsità nascosta in ogni forma di fascinazione offerta dalla Matrice – lucente e rovinosa – 

Qui stiamo, per quanto possono essere ponderate le circostanze, in ultimo, dovremmo riuscire ad astrarci dalla tragica immedesimazione, determinandoci quanto prima a voler condurre la rimanente parte dell’esistenza nel modo più ordinato possibile, discernendo le diverse pulsioni emotive che c’invischiano a questa prodigiosa illusione, tenendo soprattutto a mente che potrebbe essere affatto insensato l’esempio un tempo offerto dai Catari, col realizzare quale sia la soluzione maggiormente idonea (una volta giunti nella parabola esistenziale a un determinato punto dell’inevitabile declino) per potersi svincolare, mediante il consapevole esercizio della più estrema delle discipline, da questo dominio di essenziale corruzione e amaritudine che è la vita terrena.

Valga dunque questo esemplare racconto di fatti accaduti in tempi già moderni (prima metà del 1700) e realmente vissuti dal protagonista della narrazione, come eccellente traslato dell’ancestrale dannazione impressa nell’impasto originario dell’uomo.

 

Dopo le anguste prigioni della Bastiglia (i famigerati cachots) le imbarcazioni dette galere costituivano i più temuti orrori del regime prerivoluzionario.

La terribile vita su di esse consisteva in una reclusione sospesa tra acqua e cielo, in cui l’obbligo alla diuturna fatica era continuamente ricordato dalle atroci sferzate che scandivano i ritmi di una fatica immane e il cui unico ristoro era costituito da gallette rafferme e acqua.

I disgraziati che compongono la ciurma destinata alla fatica del remo è gente sfuggita alla condanna capitale, ma tra essi vi sono anche sfortunati vagabondi. Qualunque fosse stata la loro colpa, una volta saliti sulle tragiche navi, una sola era la condanna uguale per tutti, peraltro, non sapendo se e quando sarebbero stati liberati; generalmente la liberazione consisteva nel fatto di morire stremati dalle fatiche.

Qualunque fosse stato il delitto precedentemente commesso, talvolta il diritto alla grazia era concesso quando il condannato avesse riportato gravi menomazioni a seguito di ferite da battaglia o che la fatica del remo schiantava completamente, invece la sorte maggiormente crudele era riservata ai cosiddetti eretici, ai condannati per questioni religiose. 

La Grande Chiesa ebbe premura di suggerire ai tribunali della Corona che verso costoro dovesse essere realizzata già qui in terra l’anticipazione della dannazione eterna e, pertanto, quanti professavano una fede contraria al credo cattolico quand’anche fossero stati mutilati e resi inabili, in ogni caso dovevano restare sulle galere fino alla fine dei loro giorni.

Chi redige queste memorie è Jean Marteilhe, al quale dopo un certo numero di anni di prigionia, all’incirca dodici, solo a seguito l’intercessione di alcune sue amicizie influenti, fu concessa la grazia nel 1713 da parte della regina Anna.

“Memorie di un protestante condannato alle Galere di Francia a causa della sua religione, scritte da lui stesso”.

Si immaginino, se è possibile, sei uomini incatenati, seduti ai loro banchi, il remo fra le mani; un piede è sulla pedana, grossa sbarra di legno inchiodata alla panca, l’altro sul banco davanti; il corpo allungato, le braccia rigide per spingere innanzi il remo, fin sotto il dorso di quelli che sono dopo, intenti nel medesimo movimento.

Dopo aver così portato in avanti il remo, lo si alza per tuffarlo in mare, e contemporaneamente ci si getta, o meglio, si precipita indietro, per ricadere seduti sul proprio banco, il quale, per attutire un po' il colpo di questa pesante caduta è coperto di un cuscinetto.

Solo chi vi ha assistito può credere che uomini in carne e ossa possano resistere a un lavoro così stremante. E chi per la prima volta vede una galera navigare, non può persuadersi che i disgraziati possano resistere mezz’ora; ciò prova come con la forza e la crudeltà si riesca ad ottenere l’impossibile.

È vero che una galera non può attraversare i mari che con questo sistema, e che ci vuole una ciurma di schiavi, e un sorvegliante che eserciti la sua più dura autorità per farli vogare non già per un’ora, né per due, ma persino dieci, dodici ore consecutive.

Rammento d’aver remato io stesso per ben ventiquattro ore, senza un istante di tregua. In questi casi i sorveglianti e gli altri marinai ci nutrivano mettendoci in bocca un tozzo di galletta inzuppata nel vino, e senza che noi togliessimo le mani dai remi, perché non cadessimo svenuti.

E non si udivano che le urla degli infelici, intrisi di sangue sotto i colpi del flagello; lo schioccare delle corde sui dorsi dei miserabili; le ingiurie, e le più atroci bestemmie dei sorveglianti schizzanti rabbia e minaccia, quando la loro galera non andava come avrebbe dovuto o non navigava a paro delle altre.

Le voci del capitano e degli ufficiali superiori inveivano contro i sorveglianti, già stanchi e sfibrati per aver tanto violentemente colpito, perché le frustate fossero raddoppiate.

Quando poi un galeotto schiattava sul remo (ciò che accadeva di frequente) veniva staffilato finché gli restava ancora un fil di vita, e quando non respirava più era gettato in mare come una carogna, spietatamente.

Una ciurma d’uomini liberi, ben nutriti per forti e provetti al remo che fossero non potrebbero resistere (quando invece il vitto dei forzati consiste in solo pane e acqua e al più una piccola razione di fave mal cotte).

Gli esempi parlano.

Nel 1703 vennero fatte costruire a Dunkerque quattro galere, che dovevano essere mandate ad Anversa per navigare il fiume Escaut.

Si decise di comporre la ciurma unicamente con marinai espertissimi al remo, ma liberi…il giorno del varo solo dopo molti sforzi si riuscì a portarle con rematori liberi e il comandante si vide obbligato a scrivere al ministro confessandogli l’impossibilità di navigare senza ciurma che fosse schiava…una galera non potrà mai navigare senza una ciurma di schiavi sulla quale il sorvegliante non possa impunemente esercitare la sua inflessibile crudeltà.

È degno di essere ricordato che, quando in una galera manca il sorvegliante il capitano che ne cerca uno non si preoccupa dei requisiti morali, ma solamente della brutalità e della crudezza dei postulanti.

Solo quando soffia un vento favorevole e ammainate le vele la ciurma può riposare.

Non deve meravigliare il fatto che i sorveglianti delle galere siano così tanto crudeli e spietati verso la ciurma: è il loro mestiere, al quale sono avvezzi fin da giovani, e non potrebbero far navigare la galera con sistemi diversi. Ma ciò che passa ogni limite e sembrerà inverosimile, è il modo con il quale capitani ed ufficiali superiori – tutte persone di buona famiglia e ben allevate – assistano indifferenti alle loro crudeltà, ed anzi comandino sempre di colpire senza misericordia…valga a provarlo un solo episodio. Avevamo avvistato davanti al Tamigi la fregata inglese Rossignol, ma scendeva ormai la notte e, temendosi di non raggiungerla in tempo, si ordinò di forzare al massimo i rematori.

Il nostro luogotenente intimò al sorvegliante di raddoppiare i colpi di corda alla ciurma; e, avendogli esso fatto osservare che, pur facendo del suo meglio, non vedeva la possibilità di raggiungere la fregata, data l’imminente oscurità notturna, al che questi rispose: “raddoppia i tuoi colpi boia! Per incitare e impaurire quei cani! Fa come io stesso ho visto più d’una volta fare sulle galere di Malta: mozza un braccio d’uno di quei malnati e servitene da bastone per picchiare gli altri!”

E avrebbe voluto a tutti i costi veder eseguito il suo atroce ordine ma il sorvegliante, dimostratosi in questa occasione più umano di lui, non volle ubbidirgli.

Mezz’ora dopo eravamo sotto la fregata, ed alla prima scarica che questa ci tirò, il barbaro luogotenente rimase ucciso; e, come se il suo cadavere non fosse degno di sepoltura, nonostante le precauzioni prese per ricondurlo a terra, dopo soli tre giorni di navigazione imputridì talmente che fu impossibile tenerlo più a lungo sulla galera e anche se in vista della terra bisognò gettarlo in mare.

(estratto da: LA VITA SULLE GALERE – ed. Corbaccio 1931)   

 

 

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