Sospesi tra acqua e cielo - frammenti da un diario di prigionia del 1700
Agisce nel profondo dell’uomo un magnete di essenziale spietatezza, sussiste nell’enigma sacro della sua identità una remotissima attitudine alla crudele sottomissione e di come, nelle forme più disumane di assoggettamento, egli possa sprigionare la dote di una caparbia resistenza, di una forza tenace altrimenti impossibile ad essere palesata.
Del resto, la Rivelazione professata nella confessione di fede del credo menzognero, scaturisce da un esemplare patimento intimo e supplizio fisico indicibilmente intensificati, che annientarono il Figlio dell’uomo affinché potesse prodigiosamente risorgere dalla propria morte sacrificale, a grandioso motivo di redenzione delle colpe dell’uomo.
Solo da questa impronta di dolore ancestrale infinito, inseparabilmente congiunto ai preminenti misteri dello Spirito, la massima potenza rivelativa perviene alla coscienza mediante il suo essere travolta dal male (così come ogni mito antico tramanda).
Sembrerebbe che solo dopo aver raggiunto il fondo
dell’abisso doloroso possa essere conseguito il sommo grado della potenza
ideativa, la cui diffusione nella realtà universale rimarrebbe altrimenti ignota.
Unicamente da questa considerazione potremmo ottenere
intuizione certa del livello di straordinaria profondità in cui si compie l’inaudita
reclusione dell’uomo; quale sia la condizione del degrado esistenziale raggiunto,
e non già ora ma fin da prima che accadesse il Diluvio Universale, la cui Arca
di Salvezza giunta al termine della penosa navigazione, approdando, è poi divenuta
Tempio sepolcrale della memoria perduta.
L’animale uomo, quando posto sotto una feroce costrizione, è capace di testimoniare eccezionali doti di resistenza altrimenti impossibili a essere verificate. Basti solo questo a persuaderci della sostanziale falsità nascosta in ogni forma di fascinazione offerta dalla Matrice – lucente e rovinosa –
Qui stiamo, per quanto possono essere ponderate le circostanze, in ultimo, dovremmo riuscire ad astrarci dalla tragica immedesimazione, determinandoci quanto prima a voler condurre la
rimanente parte dell’esistenza nel modo più ordinato possibile, discernendo le diverse
pulsioni emotive che c’invischiano a questa prodigiosa illusione, tenendo soprattutto a mente che
potrebbe essere affatto insensato l’esempio un tempo offerto dai Catari, col
realizzare quale sia la soluzione maggiormente idonea (una volta giunti nella parabola esistenziale a un determinato punto dell’inevitabile declino) per potersi svincolare, mediante il consapevole esercizio della più estrema delle discipline, da questo dominio di essenziale corruzione e amaritudine che è la
vita terrena.
Valga dunque questo esemplare racconto di fatti
accaduti in tempi già moderni (prima metà del 1700) e realmente vissuti dal
protagonista della narrazione, come eccellente traslato dell’ancestrale dannazione impressa
nell’impasto originario dell’uomo.
Dopo le anguste prigioni della Bastiglia (i famigerati
cachots) le imbarcazioni dette galere costituivano i più temuti orrori
del regime prerivoluzionario.
La terribile vita su di esse consisteva in una
reclusione sospesa tra acqua e cielo, in cui l’obbligo alla diuturna fatica era
continuamente ricordato dalle atroci sferzate che scandivano i ritmi di una fatica
immane e il cui unico ristoro era costituito da gallette rafferme e acqua.
I disgraziati che compongono la ciurma destinata alla
fatica del remo è gente sfuggita alla condanna capitale, ma tra essi vi sono
anche sfortunati vagabondi. Qualunque fosse stata la loro colpa, una volta saliti sulle
tragiche navi, una sola era la condanna uguale per tutti, peraltro, non sapendo
se e quando sarebbero stati liberati; generalmente la liberazione consisteva
nel fatto di morire stremati dalle fatiche.
Qualunque fosse stato il delitto precedentemente commesso, talvolta il diritto alla grazia era concesso quando il condannato avesse riportato gravi menomazioni a seguito di ferite da battaglia o che la fatica del remo schiantava completamente, invece la sorte maggiormente crudele era riservata ai cosiddetti eretici, ai condannati per questioni religiose.
La Grande Chiesa ebbe premura di suggerire ai
tribunali della Corona che verso costoro dovesse essere realizzata già qui in
terra l’anticipazione della dannazione eterna e, pertanto, quanti professavano
una fede contraria al credo cattolico quand’anche fossero stati mutilati e resi
inabili, in ogni caso dovevano restare sulle galere fino alla fine dei loro
giorni.
Chi redige queste memorie è Jean Marteilhe, al quale
dopo un certo numero di anni di prigionia, all’incirca dodici, solo a seguito l’intercessione
di alcune sue amicizie influenti, fu concessa la grazia nel 1713 da parte della
regina Anna.
“Memorie di un protestante condannato alle
Galere di Francia a causa della sua religione, scritte da lui stesso”.
Si immaginino, se è possibile, sei uomini incatenati,
seduti ai loro banchi, il remo fra le mani; un piede è sulla pedana,
grossa sbarra di legno inchiodata alla panca, l’altro sul banco davanti; il
corpo allungato, le braccia rigide per spingere innanzi il remo, fin sotto il
dorso di quelli che sono dopo, intenti nel medesimo movimento.
Dopo aver così portato in avanti il remo, lo si alza
per tuffarlo in mare, e contemporaneamente ci si getta, o meglio, si precipita indietro,
per ricadere seduti sul proprio banco, il quale, per attutire un po' il colpo di
questa pesante caduta è coperto di un cuscinetto.
Solo chi vi ha assistito può credere che uomini in
carne e ossa possano resistere a un lavoro così stremante. E chi per la prima
volta vede una galera navigare, non può persuadersi che i disgraziati possano
resistere mezz’ora; ciò prova come con la forza e la crudeltà si riesca ad
ottenere l’impossibile.
È vero che una galera non può attraversare i mari che
con questo sistema, e che ci vuole una ciurma di schiavi, e un sorvegliante che
eserciti la sua più dura autorità per farli vogare non già per un’ora, né per
due, ma persino dieci, dodici ore consecutive.
Rammento d’aver remato io stesso per ben ventiquattro
ore, senza un istante di tregua. In questi casi i sorveglianti e gli altri marinai
ci nutrivano mettendoci in bocca un tozzo di galletta inzuppata nel vino, e
senza che noi togliessimo le mani dai remi, perché non cadessimo svenuti.
E non si udivano che le urla degli infelici, intrisi
di sangue sotto i colpi del flagello; lo schioccare delle corde sui dorsi dei
miserabili; le ingiurie, e le più atroci bestemmie dei sorveglianti schizzanti
rabbia e minaccia, quando la loro galera non andava come avrebbe dovuto o non
navigava a paro delle altre.
Le voci del capitano e degli ufficiali superiori
inveivano contro i sorveglianti, già stanchi e sfibrati per aver tanto violentemente
colpito, perché le frustate fossero raddoppiate.
Quando poi un galeotto schiattava sul remo (ciò che
accadeva di frequente) veniva staffilato finché gli restava ancora un fil di
vita, e quando non respirava più era gettato in mare come una carogna, spietatamente.
Una ciurma d’uomini liberi, ben nutriti per forti e
provetti al remo che fossero non potrebbero resistere (quando invece il vitto
dei forzati consiste in solo pane e acqua e al più una piccola razione di fave mal
cotte).
Gli esempi parlano.
Nel 1703 vennero fatte costruire a Dunkerque quattro
galere, che dovevano essere mandate ad Anversa per navigare il fiume Escaut.
Si decise di comporre la ciurma unicamente con marinai
espertissimi al remo, ma liberi…il giorno del varo solo dopo molti sforzi si
riuscì a portarle con rematori liberi e il comandante si vide obbligato a
scrivere al ministro confessandogli l’impossibilità di navigare senza ciurma
che fosse schiava…una galera non potrà mai navigare senza una ciurma di schiavi
sulla quale il sorvegliante non possa impunemente esercitare la sua
inflessibile crudeltà.
È degno di essere ricordato che, quando in una galera
manca il sorvegliante il capitano che ne cerca uno non si preoccupa dei
requisiti morali, ma solamente della brutalità e della crudezza dei postulanti.
Solo quando soffia un vento favorevole e ammainate le
vele la ciurma può riposare.
Non deve meravigliare il fatto che i sorveglianti
delle galere siano così tanto crudeli e spietati verso la ciurma: è il loro
mestiere, al quale sono avvezzi fin da giovani, e non potrebbero far navigare
la galera con sistemi diversi. Ma ciò che passa ogni limite e sembrerà inverosimile,
è il modo con il quale capitani ed ufficiali superiori – tutte persone di buona
famiglia e ben allevate – assistano indifferenti alle loro crudeltà, ed anzi
comandino sempre di colpire senza misericordia…valga a provarlo un solo episodio.
Avevamo avvistato davanti al Tamigi la fregata inglese Rossignol, ma scendeva
ormai la notte e, temendosi di non raggiungerla in tempo, si ordinò di forzare al
massimo i rematori.
Il nostro luogotenente intimò al sorvegliante di raddoppiare
i colpi di corda alla ciurma; e, avendogli esso fatto osservare che, pur
facendo del suo meglio, non vedeva la possibilità di raggiungere la fregata, data
l’imminente oscurità notturna, al che questi rispose: “raddoppia i tuoi colpi
boia! Per incitare e impaurire quei cani! Fa come io stesso ho visto più d’una
volta fare sulle galere di Malta: mozza un braccio d’uno di quei malnati e
servitene da bastone per picchiare gli altri!”
E avrebbe voluto a tutti i costi veder eseguito il suo
atroce ordine ma il sorvegliante, dimostratosi in questa occasione più umano di
lui, non volle ubbidirgli.
Mezz’ora dopo eravamo sotto la fregata, ed alla prima
scarica che questa ci tirò, il barbaro luogotenente rimase ucciso; e, come se
il suo cadavere non fosse degno di sepoltura, nonostante le precauzioni prese
per ricondurlo a terra, dopo soli tre giorni di navigazione imputridì talmente
che fu impossibile tenerlo più a lungo sulla galera e anche se in vista della
terra bisognò gettarlo in mare.
(estratto da: LA VITA SULLE GALERE – ed. Corbaccio 1931)
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page