martedì 26 maggio 2015

Ira e poesia


“Pullula mistero”, canta Sofocle nell’Antigone, “ma nulla più misterioso d’uomo vive”.
L’Uomo è il tema centrale dell’epica antica.
Le evocazioni dei cantori antichi, figurano la più maestosa delle visioni connesse all’identità universale; è l’epoea, quale intima e interna folgorazione, percorso di consapevolezza – tragedia – della pura riflessione siderale in cui s’immerge la nostra coscienza.
Affermando “Uomo” ci riferiamo ad un immensa potenzialità genica-genetica, di cui il cuore è identificato come effettivo custode del più fondo mistero universale, poiché da esso scaturisce la favilla poetica che, sola, redime nell’istante balenante la gravità del Cosmo intero.
Uomo significa, nell’accezione sottile del termine così evidenziata nel canto lirico: “esploratore di sé” e dunque esploratore di molteplici dimensioni. Non a caso Orfeo è Argonauta.
Apparso nel Cosmo, l’uomo è il personaggio di spicco di una vastissima scena drammatica. Il mondo è anche l’Incudine su cui inesorabile si abbatte, come maglio fatale, la necessità. Dal passato greco, è proprio il sentimento dell’ira che con maggiore evidenza sembra affiorare dalla selva poetica dei primissimi canti a noi noti:
“Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta”
“Io sono servente di Ares guerriero”, narra Archiloco, aggiungendo poi: “e domino dono di Muse”; indicando con ciò: “sono poeta e so di esserlo”. Archiloco rivendica l’intima proprietà di maestria, stabilita su una qualità “chiarificante” propria alla vitalità dell’animo; prerogativa emblematica del maestoso enigma splendente che vive nella coscienza opportunamente formata. 
E’ la robusta presa di coscienza di una identità multiforme, che realizza il valore dell’intima tensione luminosa (valore dell’ispirazione) connessa alla medesima radianza universale: intesa quale unica effettiva forza in grado di riplasmare, riscattare e sciogliere la materia da una gravità altrimenti sorda in se stessa.
L’ira splendente e paurosa, propria ai vitali contrasti dell’animo “incarcerato”, l’attuale società capovolta intende estinguere mediante un'insensibile radianza elettromagnetica artificialmente propagata su scala planetaria.
E’ ancora la chiarissima follia di un melanconico e doloroso canto, in cui si riconosce la centralità umana perseguita nell’età antica attraverso distinte elevazioni ideali, realizzate in primis nel cupo furore guerriero e che Archiloco converte in spettacolo autoironico scrivendo: “del mio scudo qualcuno fra i Sai ora si gloria. Presso un cespuglio fui costretto a lasciarlo, arma irreprensibile. Ho salvato me stesso. E allora, cosa mi importa di quello scudo? Alla malora! Presto me ne procurerò uno non peggiore”.
Non è un elogio della fuga, ma un acuta rielaborazione dell’idea di salvaguardia della persona in cui i valori tradizionali potrebbero risultare apparentemente svuotati di senso; ma è l’idea stessa dell’accorta preservazione della Vir a prevalere. 
Per Archiloco l’individuo deve trovare in sé la sapienza e affidarsi alla mutevole risorsa dell’improvvisazione, benché egli trovò comunque la morte in battaglia accorrendo in difesa di Paro, attaccata dalla vicina isola di Nasso.
Ogni cosa noi vediamo nell’attuale manifestazione, la nostra stessa identità occasionale, è concretizzata come avvolta in una veste di sensibile apparenza, sotto la quale è riposta l’essenza, percepita come “divina Idea del mondo” che è la realtà/verità stessa del reale. 
L’uomo, identificandosi come una divina apparizione si rende potenziale artefice del prodigio, invece, se cede all’inganno, all’abissale sfiducia, relativizza tutto pensandosi come la scialba replica di un'ancestrale contraffazione cosmica, degradandosi perfettamente a infimo ruolo di schiavo/consumatore/cavia/ spiritualmente malato e vergognoso della propria “nudità”, ricolmo d’impotente, quanto soffocato, rancore di fronte al tirannico Creatore/Demiurgo. 
Un uomo intimamente ridotto e morbosamente impaziente per l’eclatante accadimento esteriore, che nuovamente rivelerà l’identità, assolutamente contraffatta, dei suoi “Dèi guardiani”. I grandi patrigni ostili della progenie umana, che ammira e che teme e dei quali, nonostante tutto, desidera le attenzioni malvagie, poiché intimamente l'uomo è pervaso di nichilismo.
Riaffiora qui una volta ancora l’enigma dell’identità arcana emblematizzata nel coro dell’Antigone : “Pullula mistero. E nulla più misterioso d’uomo vive”.
Cosa si dovrebbe ricercare con maggior pervicacia più d’ogni altra cosa? Noi stessi. L’intima chiarificazione, ricercarla fino alla fine.
L’energico segno d’identità definito dai greci “aytos”, forma di pronome-aggettivo indicante il “sé”, dunque, l’appartenere a sé stessi, inteso come effettiva coscienza della responsabilità spirituale connessa inscindibilmente al senso stesso dell’ethos. L'etica è indice rivelatore dell’ AUTENTICITA’, appunto da “autòs”: che sta a sé, - “autore” - in sé stesso, proprio, in persona, da sé, senza concorso di altri; intendendo qui "gli altri" come metafora di circostanze devianti di finzione-artefazione. 

Visione poetica e, dunque, fondamento etico dell’esistenza riverberata dall’ira – patita nell’inganno atavico  – caratteristiche ora massimamente ottenebrate, ma che costituiscono l’autentico ancoraggio remoto alla scaturigine più pura da cui la nostra essenza promana. 
Adesso che vorticando nell’immensa deriva delle apparenze, con che altro potremo arginare lo smarrimento interiore?

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