Sulle figure allegoriche di Lia e Rachele nell'ultimo canto del Purgatorio di Dante
Ciò che attualmente accade
sembra superare le nostre aspettative al peggio.
La materia sta dissolvendo i
suoi prestigi in una sorta di nulla manovrato da un potere nichilista per
derivazione dei suoi contenuti, che sono formati dal nesso di ciò che è più
meschino a quanto occorre a suggestionare le nostre menti.
I soli voli chimici perpetrati pressoché quotidianamente da aerei non ben identificati nei cieli di mezzo pianeta, oltre a rilasciare veleni offuscano progressivamente e subdolamente il nostro orientamento intimo, ma ciò che disorienta maggiormente è l’indifferenza moltiplicata delle persone, la cosiddetta massa, di cui tutti facciamo parte e tutti oscuramente de-qualificati nel volgare appellativo di consumatori.
I soli voli chimici perpetrati pressoché quotidianamente da aerei non ben identificati nei cieli di mezzo pianeta, oltre a rilasciare veleni offuscano progressivamente e subdolamente il nostro orientamento intimo, ma ciò che disorienta maggiormente è l’indifferenza moltiplicata delle persone, la cosiddetta massa, di cui tutti facciamo parte e tutti oscuramente de-qualificati nel volgare appellativo di consumatori.
Il degrado architettonico
precede solo di pochi decenni la deriva di tutti quei pregi che ci qualificano
appunto come uomini. L’assuefazione al disumano è quasi completa e questo è
funzionale al compimento del giro involutivo previsto per il corso dell’Età
attuale, (Kali-yuga) ma nonostante ciò credo sarebbe opportuno, benché possa
sembrare apparentemente insignificante, tenere desta la memoria su chi siamo
nel tentativo di recuperare la nostra identità meta-storica, come necessaria
contrapposizione ad ogni tentativo di condizionamento che mira a livellarci ad
un solo significato esistenziale, sia esso materiale (industria-consumismo,
produzione sterile) che mistico, (new-age) nei contenuti di una pseudo
spiritualità a buon mercato incoraggiante la vaghezza interiore, l’abbandono
indistinto, l’indistinta diluizione dei sensi in un nirvana artefatto, pensato
ad arte per annullare la Vera e significativa eredità misterica del mondo
arcaico e antico, che è l’unica sorgente cui attingere la comprensione della
nostra multiforme natura; l’unica miniera da cui estrarre, seppur parzialmente,
le modalità operative atte a convertire un cammino esistenziale altrimenti
destinato ad affondare in miserevoli imbrogli.
Per caratteristica naturale
noi siamo predisposti a fiorire interiormente, a far nascere ciò che Proclo
chiama il “fiore dell’essere”, la schiusa del germoglio d’amore che solo porta
alla Verità – Alétheia – il cui significato arcaico è letteralmente “non –
oblio”, al superamento del fiume Lete.
Ricerchiamo con passione il
nutrimento della fede ardente, dell’incandescenza bianca capace di trasmutare
la materia elevandola in dimensioni inesprimibili con le sole parole.
Dalla necessità fisica allo
stato di Grazia intercorre l’attuazione di un procedimento che prevede
l’immersione nella materia e da qui appunto l’idea o suggestione che fa dire a
Dante: “nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura” e
dunque dell’esistenza di una specifica “Grammatica operativa” valida a
stabilire le fasi che scandiscono un cammino di crescita spirituale ora
seppellito dal crollo di più Civiltà e del quale è possibile riesumare
unicamente preziosi frammenti di tracciato, utili a rammentarci l’identità, la
direzione di uno specifico valore operativo che fu propriamente “artigianale”
tanto nella speculazione che nell’operatività.
Qui estendo nel senso più ampio ciò che il termine “artefice-artigiano” significa e che pare essere svanito - cosa questa mai accaduta prima nella storia - dalle nostre manifestazioni di volontà ormai involute a sterili soluzioni concettuali, relegate al senso aberrante di una produzione solo meccanica, il cui significato allegorico rimanda alla più evidente delle manifestazioni sataniche mai occorse e culminata in quel processo di conversione o ulteriore frammentazione o diluizione sintetica della realtà disposto nella nuova era della digitalizzazione.
Qui estendo nel senso più ampio ciò che il termine “artefice-artigiano” significa e che pare essere svanito - cosa questa mai accaduta prima nella storia - dalle nostre manifestazioni di volontà ormai involute a sterili soluzioni concettuali, relegate al senso aberrante di una produzione solo meccanica, il cui significato allegorico rimanda alla più evidente delle manifestazioni sataniche mai occorse e culminata in quel processo di conversione o ulteriore frammentazione o diluizione sintetica della realtà disposto nella nuova era della digitalizzazione.
Quella che segue è una
semplice considerazione su alcuni aspetti presenti nella struttura della Divina
Commedia, una valutazione, credo, fatta al lume del buon senso, che spero possa
contribuire a rischiarare “le segrete della nostra cripta”.
Altri assai meglio preparati
di me ne hanno trattato e altri ancora potranno con maggior cognizione ampliare
il senso di tale ricerca.
Dante ri-vela (vela
nuovamente) il principio divino e multiforme dell’essenza universale e del
labirintico percorso che noi siamo chiamati a svolgere, governati da forze
sorde e i primi bisogni materiali provvidenzialmente mitigati o meglio si
direbbe convertiti da impalpabili ispirazioni.
L’intelaiatura ermetica del
Poema di Dante emerge dalle esplorazioni che ne fecero Perez, Pascoli, Ricolfi,
Rossetti, Valli, ciò che definisce la sostanza del mistero insolvibile è la
traccia stessa di un cammino esistenziale lambito da confini metastorici la cui
continuità sussiste grazie all’enigma di Amore, forza invisibile ma non
insensibile ai nostri atti e che da sempre muove l’uomo all’intuizione della
dimensione sovrasensibile.
Nella concezione cristiana di
Dante sono escluse la ciclicità e la reincarnazione e tutte le anime purganti
bevono ai due fiumi – indubbiamente per il tramite di Matelda – il Poeta come
Enea vi reca il suo corpo ancora mortale ma al contrario dell’Eroe troiano,
egli beve alle acque di tutti e due per ascendere al cielo.
I fiumi sono l’Eunoè e il
Leté, quest’ultimo preso dalla mitologia precristiana, la parola greca che da
il nome a questo fiume significa oblio, appunto rendeva le anime “immemori al
tutto di sé e d’altrui spoglie d’ogni coscienza e cieche d’ogni lume di
cognizione distinta”.
Nel Poema di Dante il Leté fa
dimenticare i soli peccati, libera da ricordi tristi, desolanti, le sue dolci
acque diluiscono l’amarezza di chi visse nell’errore contribuendo perciò alla
perfezione di quella beatitudine verso cui le anime stanno ormai per spiccare
il volo (Purg. XXVIII).
Platone – Replub. X, 621 -
sostiene che le sue acque fanno obliare alle anime ritornanti nella dimensione
materiale la loro precedente incarnazione e questo è un passaggio obbligato per
chi intende rinascere a nuova vita; non si può omettere di rilevare una
tradizione più antica, risalente ai misteri orfici ed eleusini che informa
della sorgente di Mnemosyne = la memoria, che dona il risveglio e lo splendore
del lignaggio divino; memoria peraltro emblematizzata dallo stesso melograno
sacro a Demetra.
Si rivela essenziale svelare
il significato allegorico delle due figure femminili, Lia e Rachele, che
appaiono in forma di visione al poeta nell’ultimo canto del Purgatorio.
Esse si personificano come
custodi del limes separante il Purgatorio dal Paradiso.
Giovanni Pascoli così scrive:
“Nel Convivio Dante prende, a
raffigurarle, le due persone evangeliche di Marta e Maria; nella Comedia,
quelle bibliche di Rachele e Lia. In vero dopo la purificazione nel fuoco, egli
vede Lia che si guarda allo specchio, e Matelda che ha gli occhi, non più deboli,
ma luminosi. Beatrice, d’occhi incomparabilmente vivi, poiché con la vista di
essi ella lo alzerà di spera in spera, Beatrice siede con l’antica Rachele.
Ebbene, ecco una esposizione
delle vicende di Lia e Rachele intese misticamente.
Le due mogli libere di
Giacobbe significano il nuovo testamento dal quale siamo stati chiamati in
libertà.
Né sono due a caso. «Sono
due, perché due vite a noi sono dimostrate nel corpo del Cristo, una temporale,
del lavoro; l’altra eterna, della contemplazione. L’una il Signore rappresentò
con la passione, l’altra con la risurrezione.
I nomi stessi di quelle donne
ce ne fanno fede. Lia vuol dire laborans, Rachele visum principium, ossia il
Verbo dal quale si vede il principio.
L’azione della vita umana e mortale, nella quale viviamo ex fide, facendo molte laboriose opere incerti come siano per riuscire a pro di coloro cui vogliamo provvedere, è Lia prima moglie di Giacobbe; e perciò si narra che fosse d’occhi infermi, ché i pensieri dei mortali sono timidi e incerte le loro provvidenze.
L’azione della vita umana e mortale, nella quale viviamo ex fide, facendo molte laboriose opere incerti come siano per riuscire a pro di coloro cui vogliamo provvedere, è Lia prima moglie di Giacobbe; e perciò si narra che fosse d’occhi infermi, ché i pensieri dei mortali sono timidi e incerte le loro provvidenze.
La speranza invece
dell’eterna contemplazione di Dio, speranza che ha certa e dilettevole
intelligenza di verità, è Rachele: ond’ella è ancor detta di buon viso e di
bella figura.
Ogni piamente studioso ama
costei, e per lei serve alla Grazia di Dio, dalla quale i nostri peccati, anche
se fossero come il fenicio, sono fatti bianchi come neve. Ché Laban, cui
Giacobbe servì per amor di Rachele, s’interpreta dealbatio»...A questo punto
nessuno, credo, dubiterà più.
L’argomento della Comedia è
la rinunzia alla vita attiva, a Lia, e l’adozione della vita contemplativa, di
Rachele.
Abbiamo osservato che, nella
Comedia, la vita contemplativa contiene l’attiva; che, cioè, l’attiva dispone
alla contemplativa; che non ha Rachele chi non prende Lia.
E abbiamo veduto che ciò
esprime Dante facendo che Lia, quand’esso è nella vita attiva convenevolmente
esercitato e purificato, non ha più deboli gli occhi; ché ella si specchia e
Matelda raggia...egli (Dante) trovava coincidente con l’attitudine alla vita
contemplativa la perfezione della vita attiva? e doveva trovare Lia a
specchiarsi come Rachele? e trovava in Matelda gli occhi luminosi di
Beatrice?.” (1)
Questi nomi e allegorie
conservano un significato strettamente annodato al senso dell’antica
Disciplina, pervenirne il senso più intimo vuol dire riannodare l’esistenza
alla trama di un tessuto sapienziale per un fine che non è mera erudizione ma
che deve convertirsi in calore vitale.
Qui noi possiamo ritrovare
parte di quelle modalità operative che ci sono necessarie per contrastare i
bassi psichismi siano essi sottili che densi irradiati dall’odierna Grande
Parodia, l’attuale Sovversione Acrilica che progressivamente ha reso l’apparato
Statale un entità massimamente astratta e demagogica, assolutamente estranea al
senso più autentico della Res-Pubblica.
L’avvelenamento sistematico
delle idee e dei corpi attualmente è l’unico compito che sembra essere
pienamente esaudito dallo Stato (da tutti gli Stati) attraverso l’impiego sempre
più massiccio della chimica avanzata, della microingegneria e
dell'elettromagnetismo artificiale scansionante i ritmi sconnessi di frequenze
massimamente incoerenti o disarmoniche.
Questa materia rimodellata
artificialmente sembra non essere più predisposta per accogliere o alimentare
la scintilla del Vate, questi nuovi volumi indifferenti alla vita che gli sta
attorno non sono idonei a propagare l’eco dell’originaria intonazione.
Il nostro è l’ultimo strenuo
- seppur vano sul piano esteriore - tentativo di non cedere all’attuale
manipolazione artificiale della vita.
Dante con sublima arte ci
avvisa che la maggior fatica per l’animo, una volta aver intuito il senso di
realtà superiori, è quella di ricondurre il proprio agire veicolato dal corpo
fisico ad una condotta etica capace di onorare la verità umana e naturale e non
a caso fa pronunciare a Virgilio, ideale figura di Maestro e Vate incarnante
quelle medesime tensioni liriche che fondarono l’identità di Roma nella storia
ancor prima del suo dominio militare, i seguenti versi:
“Tratto t’ho qui con ingegno
e con arte
lo tuo piacere ormai prendi
per duce
fuor se’ dell’erte vie, fuor
se’ de l’arte”
Virgilio dice: tu sei fuori
dall’erta via, tu sei fuori da ogni arte, e ciò è significativo, poiché l’arte
(qui intesa nella sua accezione più ampia) – atteggiamento o predisposizione
rituale - è mezzo di cui occorre avere massima cognizione affinché possa
compiersi l’opera redentiva e trasmutatrice delle molteplici espansioni e
contrazioni dell’animo, convogliate verso un fine inesprimibile, ma ugualmente
percepito come sublime e tale soglia o preludio di transito o salto di
frequenza è annunciato appunto da Lia.
Costei siede in un prato
luminoso dove intreccia ghirlande, un luogo ideale che si riferisce pur sempre
alla dimensione materiale, corrispettivo positivo dell’Oscura Selva, ribadendo la persistenza all'interno del Creato del principio luminoso ad esso preesistente.
Lia e Rachele personificano
la duplice Via iniziatica, regale e sacerdotale, in cui l’adorazione ravviva
nell’intimità della persona il significato dell’operatività ritualmente intesa,
di quella Sacra Disciplina necessaria al corretto svolgimento dell’esistenza,
ad acuire la percezione del numinoso quale tessitore del Fato e Compositore del
tempo, che ci destina per questa via ad accrescere la nostra natura altrimenti
destinata a smarrirsi nell’oscurità indistinta allegorizzata dalla Selva
dantesca.
Non a caso Labano, che in
ebraico significa bianco, è il padre di Lia, riassume in sé il motivo della
corrente vitale operante nel Cosmo e dunque della spiritualità nella coscienza
umana, della sua necessità convertita nel mondo sensibile, dell’urgenza del
fare per realizzare mediante l’arte, dell’agire rituale che innalza o trasmuta
il lavoro in Opera.
Nel prontuario delle rad.
accado semite che si trova nel diz. etimologico della lingua ebraica restituita
al suo fondamento ermetico di F. D’Olivet, alla rad, LB (Labano) è intesa ogni
attività interiore generativa, il puro desiderio in atto, il fuoco vitale e nel
senso estensivo al segno di tale radicale è relazionata l’immagine stessa del
cuore, di tutti quei motivi che riguardano questo centro di vita sede della
vera intelligenza e congiunto ad esso il coraggio = cor-ago – cor = cuore – ago
= agone, lo spazio rituale adibito alla lotta, allo scontro che ognuno di noi
deve sostenere rivolto alle tenebre e ombre interiori.
Lia è la traduzione
dell’enigma attraverso il Mestiere, la Poesia – mestiere è assonante a mistero
–
LI – LN sottendono ogni idea
di coesione, annodamento, legame universale, difatti Lia nella Divina Commedia
intreccia gambi di fiori su un prato luminoso, rafforzando in ciò il
significato legato a queste due radicali che indicano l’azione sprigionante la
potenza divina intesa come movimento vitale interno alla materia, figurativamente
riconducibile all’immagine di una perla.
Tale relazione richiama alla
memoria lo stesso sostrato teologico dell’antico Iran Zoroastriano, confluito
nella sapienza islamica assieme alle concezioni neoplatoniche, dove nel testo
sacro Ismaelita dell’Ummu’l-Kitab (2) : “i mari di luce” – chiara allusione
all’oceano celeste – si vuole che l’abissale vastità universale celi nelle sue
profondità, al pari del mare terrestre, la perla che è emblema del germe igneo
traduttore in noi dell’ispirazione sacra e tale fu, benché diversificata, la
visione orfica che vedeva l’uomo formato del germe divino impastato assieme le
ceneri titaniche.
Così la perla nel mito Ahl-i
Haqq, rappresenta il coagulo della forza luminosa e divina operante in noi e
appunto così credo sia la Lia in Dante.
Ecco pertanto restituito il
senso profondo del nostro stare e della “distonia” che lo stolido, profano
ottimismo moderno genera nelle nostre coscienze e che riflette nel nostro agire.
La Tradizione cui fa
riferimento Dionigi l’Aereopagita, cui si riferisce l’impronta teologica di
Dante, affonda nel limo fecondo della spiritualità arcaica mediterranea,
all’intuizione orfica dei viaggi ultramondani che sancirono la definizione di
un “aristocrazia mistica” comune a tutta la tradizione ermetica, quale eredità
preistorica del mondo sciamanico, formato da molteplici storie e viaggi di
anime incarnate partecipi del divino e che necessitano l’attraversamento di
questo labirinto terrestre, d’affondare negli inferi già in questa vita e
risalirne per compiere il proprio cammino di Conoscenza e perfezione.
(nota1)
Da rilevare, infine, che
Dante descrive Lia come giovane e bella, mentre secondo il testo biblico essa
era liippis... oculis («dagli occhi malati», Gen., XXIX, 17)
Questo difetto della
vista di Lia, scrive Pascoli, fu di principal momento a determinare
il significato mistico di lei in comparazione della veggente sorella. Ora Dante
raffigura, in sogno, Lia che dice:
Per piacermi allo specchio qui
m’adorno: in un atto che è di contemplazione, perché la sua sorella Rachel mai
non si smaga del suo miraglio, e siede tutto giorno.
Come mai quest’altra Lia, che
è Matelda, quelli occhi che avrebbero a essere lippi, li ha tali che non credo
che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere ...? (Pur. XXVIII 63 segg)
Così, (commenta sempre
Pascoli) la vita attiva sta diventando contemplativa; è già disposta alla
contemplazione. Dante ha, con l’esercizio delle virtù morali, acquistata,
attraverso il fuoco dell’ultimo peccato, la mondizia della vista. È disposto a
vedere. Non è così? È così. Perciò Lia si piace allo specchio e perciò Matelda
ha gli occhi luminosi. E Dante, se s’interpreta il simbolo, è Dante medesimo in
loro, che ha stenebrato gli occhi infermi, e già è per contemplare.
I nomi stessi di quelle donne
ce ne fanno fede: Lia vuol dire laborans, Rachele visum principium, ossia il
Verbo dal quale si vede il principio. L’azione della vita umana e mortale,
nella quale viviamo ex fide, facendo molte laboriose, opere incerti, come siano
per riuscire a pro di coloro cui vogliamo provvedere, è Lia prima moglie di
Giacobbe; e perciò si narra che fosse d’occhi infermi, ché i pensieri dei
mortali sono timidi e incerte le loro provvidenze (Sap. IX 14). La speranza
invece dell’eterna contemplazione di Dio, speranza che ha certa e dilettevole
intelligenza di verità, è Rachele: ond’ella è ancor detta di buon viso e di
bella figura.
In pieno Rinascimento,
Achille Bocchi nei suoi symbolicae quaestiones, in particolare il commento
al simbolo
XXIII del I libro e il XXXVI, aiuta ulteriormente a dipanare il senso
nascosto dei nostri motivi esistenziali maggiormente reconditi, sui quali
appunto è costruita l'allegoria stessa di Lia e Matelda, quando scrive: “L’Arte
sapiente gareggia come può con la natura, anzi la vince, purchè la sostengano
esercizio ed assidua cura / Come può conoscere la misura delle cose chi non
conosce la misura di se stesso? / Chi è mai questa splendente fanciulla dagli
occhi lucenti? È l’Arte (che è pura tensione felix). Nulla infatti suscita
maggiormente la forza dell’ingegno quanto una consapevole virtù (Virtù reale e
assolutamente antitetica all’intendimento del tempo attuale) . Riprendendo
dunque l'allegoria in Dante, vediamo Lia seduta su di un prato delizioso mentre
intreccia ghirlande fiorite, il suo, di fatto, è un esercizio avvolgente e
spiraliforme, per il quale stabilisce il centro vitale del Creato, riflesso nel
microcosmo individuale, raffigurato dall'intreccio fiorito che è la stessa
cinta allegorica della misura umana riscattata da un senso solo materiale: Ella
(lippis oculis) ricerca il Vero, Matelda trova (svela) il Bene. Il Poeta trova
dentro di sé la Sapienza, (Beatitudine – Beatrice) non prima d’aver esplorato
attentamente il mondo esterno nei molteplici significati allegorici per i
quali, accortamente, riconosce il suo fine.
Non è semplice ars, questa
che affronta la natura, ma ars docta e conscia virtus; e cioè scienza nel
significato eminentemente platonico di conoscenza dell’“uso” e della “naturale
costituzione dell’oggetto costruito”.
L’artista, pertanto, è artigiano (artefix) di ciò che appare, non artefice del modello (quale solo Dio è, secondo la concezione tradizionale ritessuta da Dante stesso) ma, l'uomo e' autore di una tra le sue molteplici e possibili rappresentazioni.
Possiamo dedurne che esclusivamente attraverso l’intuizione felice (allegorico colloquio con le Muse) può compiersi l’elaborazione dell’opera, per la quale si perviene al maggior senso creativo e generativo, (un'idea questa assolutamente distante dal significato degradato di "concetto" e "concettuale" modernamente intesi) riuscendo a pervenire (per opera dell'intuizione felice, dunque, della chiara reminiscenza) al più antico enigma attraverso cui la divinità opera nell’universo.
Il cosiddetto “procedimento artistico” (termine questo divenuto assai ozioso) in realtà riguarda la centratura integrale dell’uomo, il cui corpo esteriore diviene, per usare un espressione della mistica ebraica, effettiva custodia-fodero della virtù, laddove il raggiungimento del Sommo Bene passa attraverso l’azione concreta, l’attività pratica e la fatica (ermeticamente intesa) quale recondita necessità occorsa ai motivi fondanti la nostra discesa nella densità materiale.
L’artista, pertanto, è artigiano (artefix) di ciò che appare, non artefice del modello (quale solo Dio è, secondo la concezione tradizionale ritessuta da Dante stesso) ma, l'uomo e' autore di una tra le sue molteplici e possibili rappresentazioni.
Possiamo dedurne che esclusivamente attraverso l’intuizione felice (allegorico colloquio con le Muse) può compiersi l’elaborazione dell’opera, per la quale si perviene al maggior senso creativo e generativo, (un'idea questa assolutamente distante dal significato degradato di "concetto" e "concettuale" modernamente intesi) riuscendo a pervenire (per opera dell'intuizione felice, dunque, della chiara reminiscenza) al più antico enigma attraverso cui la divinità opera nell’universo.
Il cosiddetto “procedimento artistico” (termine questo divenuto assai ozioso) in realtà riguarda la centratura integrale dell’uomo, il cui corpo esteriore diviene, per usare un espressione della mistica ebraica, effettiva custodia-fodero della virtù, laddove il raggiungimento del Sommo Bene passa attraverso l’azione concreta, l’attività pratica e la fatica (ermeticamente intesa) quale recondita necessità occorsa ai motivi fondanti la nostra discesa nella densità materiale.
Benché oggi sembriamo
fortemente menomati nell’intimo, in cui si rivela l'assenza pressoché completa
tutte quelle facoltà trasmutatorie in grado d’infondere il senso più profondo
al nostro agire quotidiano, (per questo massimamente scomposto) la coscienza a
ogni modo dovrebbe aver comunque presente che la memoria delle Origini affonda
nella fertile ricchezza del terreno mitico, dal quale ogni significativa
fioritura delle più diverse civiltà apparse sulla faccia del pianeta ha attinto
la propria sostanza, disseccandosi miseramente quando alle radici ne è venuta
meno la giusta prossimità.
(2) Ezio Albrile “I fedeli di
verità”
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